Premi come il Leone d’oro, vinto da Gianfranco Rosi alla 70ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia (anno 2013 – documentario “Sacro Gra”) e l’Orso d’oro consegnato sempre allo stesso Rosi al Festival di Berlino nel 2016 (per il documentario “Fuocoammare”) dimostrano una cosa molto importante.
Che il cinema del reale non è affatto morto.
Anzi, tutt’altro.
Come l’araba fenice sta risorgendo dalle sue stesse ceneri e sta conoscendo una nuova fase di splendore.
Certo una domanda, sorge spontanea.
Se oggi risorge, perchè per anni il documentario è rimasto nell’oblio? Ovvio è difficile dare una risposta esaustiva. Diciamo solo che il cinema del reale è un genere molto antico, se non addirittura il più antico. Anzi, a ben guardare, il cinema è nato proprio come forma di documentario. Ma è soprattutto nel secondo dopoguerra che, almeno in Italia, il cinema del reale ha conosciuto il suo massimo apogeo. Interi stuoli di registi di quegli anni si sono fatti le ossa con il documentario. Sono cresciuti attraverso di esso, producendo lavori molto interessanti e facendo conoscere realtà sconosciute ai più, spesso scomode. Poi, con il passare del tempo il documentario è caduto nel dimenticatoio e molti di quegli autori che avevano mosso i primi passi con il cinema del reale sono passati a quello di finzione.
Perchè? Anche qui è difficile essere esaustivi. Ma certo non possiamo non sottacere l’assalto di nuove forme di comunicazione tra cui la televisione, un disinteresse delle nuove generazioni di autori, la scarsa visibilità che ha avuto il documentario in sala e una politica culturale che non ha fatto nulla per sostenere il genere.
Ma torniamo a oggi. Quali sono state le ragioni della sua rinascita?
Anzitutto le moderne tecnologie consentono di realizzare lavori interessanti con molta più facilità, economicità, autonomia e libertà rispetto ad una volta. Una piccola squadra di tre persone (regista, operatore, microfonista), un po’ di attrezzatura, qualche buona idea, un pizzico di talento e molto impegno possono oggigiorno ottenere risultati davvero degni di nota.
In secondo luogo le nuove generazioni di autori stanno dimostrano una rinata sensibilità verso questo tipo di genere e stanno dimostrando una indubbia conoscenza (e padronanza) di quelle regole di linguaggio e di grammatica cinematografica che, quando applicate al documentario, ne permettono un’ottima appetibilità formale ed estetica (e dunque un forte potenziale distributivo in sala o su canali tematici).
Certo non tutti i motivi che hanno tenuto in stallo e paralisi il genere sono venuti meno (in primis la politica culturale) ma il successo è comunque confortante. Un successo che incoraggia chi ha intenzione di fare cinema del reale, a proseguire sulla propria strada, non più così solitaria, deserta, disabitata. Perchè quello di Venezia prima e di Berlino poi è un trionfo che porta a guardare al documentario non più come ad un ottimo esercizio per chi ha voglia di fare “pratica di cinema”. Non più come ad un “genere di passaggio”. Ma a qualcosa di completamente diverso. E più precisamente ad una forma di espressione cinematografica con la C maiuscola. Probabilmente la più nobile. Non solo per il modo più autentico con cui il documentario si approccia alla realtà (interpretandola al minimo), ma soprattutto perché non presenta tutti quei difetti (spese ciclopiche, enorme carrozzone al seguito, artificiosità realizzativa, pressioni esterne e dunque scollamento tra intenzione artistica e risultati concreti) che il cinema di finzione ha fin troppo dimostrato negli anni.
Lunga vita al documentario. Lunga vita al cinema del reale.